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Racconti - Mi chiamo Lale

Mi chiamo Lale e sono una bambina di sette anni. Cucino, faccio il bucato, insomma, aiuto la mamma.
 
Appena papà arriva a casa, stanco dal lavoro, si siede sulla poltrona e aspetta che la mamma si inginocchi per lavargli i piedi. Quando arriva a casa tutto deve essere sempre pronto, altrimenti sono guai.
 
Siamo solo due donne in casa, ormai. Mia sorella Amal si è appena sposata con un ragazzo più grande di lei. Io e Amal avevamo progettato di andare in Europa insieme e sposarci lì. Ma da quando si è sposata, non la vedo più.

 

Mi manca parlare con lei, farle le trecce e giocare insieme. Un giorno mi disse che, noi donne, una volta sposate lasciamo per sempre la nostra casa e i nostri genitori. Per questo non ci vediamo mai. Disse anche di aver sentito che sposarsi qui è una liberazione. Sarebbe bello lasciare la casa, anche se ciò significherebbe lasciare la mamma da sola con il papà.

 

Amal ci litigava spesso con la mamma, si lamentava perché non ci difendeva mai e lasciava che il papà ci picchiasse. “È giusto così” diceva.

 

 

Mi chiamo Lale e ho dieci anni, ora sono grande. “Sembri quasi una signorina” dice mio padre. Continuo a svolgere i lavori di sempre; lavo i piatti, cucino, faccio il bucato.

La mamma è incinta, perciò devo fare il doppio del lavoro. L’altro giorno papà l’ha picchiata, aspetta un’altra femminuccia, come se fosse colpa della mamma.  Aveva tanti lividi sul viso, ma anche sul corpo, l’ho notato qualche giorno dopo, mentre l’aiutavo a fare il bagno. Poi è entrato mio padre, mi ha presa per un braccio e mi ha lanciato fuori dal bagno. Ha fatto rivestire la mamma, voleva andare di nuovo all’ospedale per essere sicuro che non fosse maschio.
 
I miei genitori sono tornati. Papà è felice, suppongo sia un maschietto. La mamma è stanca. Non dorme più per i dolori, forse per la gravidanza o forse per le botte. La mamma non si ribella, lo lascia fare.

 

 

Mi chiamo Lale, ho dodici anni e voglio andare a scuola.
L’altro giorno in tv hanno detto che delle donne si sono ribellate, papà mi ha vista interessata e ha cambiato canale. Gli ho detto che voglio andare a scuola, mi piacerebbe fare nuove amicizie, conoscere gli usi e i costumi degli altri paesi, le scoperte dell’uomo, conoscere bene il corpo umano.
 
Mi ha picchiata più forte del solito. “Sei una donna, non hai il diritto di imparare”, ha detto.

 

 

Mi chiamo Lale, ho tredici anni e sto per sposarmi. Fadi, Il ragazzo che sposerò, è venuto a casa qualche giorno fa e papà ne è rimasto molto contento. Fadi è carino con me.

 

La mamma mi ha dato dei consigli su come trattare il mio futuro marito, ma non gli farò da schiava come dice lei.
 
Fadi non è come papà. 

 

 

Mi chiamo Lale, ho quattordici anni e sono sposata da uno. È un anno che vengo picchiata da mio marito. Dice che è mio dovere fargli da schiava.

 

Non mi reggo neanche più in piedi per tutte le botte che mi dà.
 
Non è questo ciò che sognavo. Volevo essere libera e mi sono ritrovata più in gabbia di prima. “Basta, ti prego, basta!” insisto, ma lui continua.
 
Dice che una nostra vicina gli ha detto che mi sono fermata a parlare con un uomo ieri, fuori dal supermercato. “Gli ho solo chiesto l’ora, poi sono tornata a casa”, sussurro. “Non azzardarti mai più, che figure mi fai fare” urla lui. Va via, io mi sistemo e continuo le faccende di casa.

 

 

Mi chiamo Lale, ho quindici anni e mio marito ha abusato di me. Sì, abusato, non volevo fare sesso con lui.

 
Mi ha picchiata e l’ho lasciato fare. Non avevo molta scelta. Non è ciò che volevo da bambina. Volevo essere libera, non prigioniera in casa mia.

 

 

Mi chiamo…Lale, sì Lale. Sono più o meno tre anni che sono sposata con Fadi. Fadi, il suo di nome me lo ricordo bene. Fadi continua a picchiarmi e abusa di me quasi ogni settimana.
 
Sono stanca di questa vita. Sono donna ed essere donna qui è una disgrazia.

 

Fadi è infuriato con me, ancora. Non sono riuscita a fare tutte le faccende di casa. Fadi crede che io abbia conosciuto qualcuno. Fadi ha iniziato a picchiarmi. Ho la vista offuscata. Forse ha preso qualcosa in cucina. Mi picchia sempre più forte.
 
Avevo ragione, lui non è come mio padre. È peggio.

 

 

Mi chiamo Lale e sono distesa sul pavimento. Grondo sangue. Mio marito mi ha uccisa.
 
Fadi ora piange. Fadi diceva di amarmi, ma se fosse stato così, non mi avrebbe picchiata. Non mi avrebbe uccisa.

 

Sono nata morta, la mia vita non poteva essere chiamata vita. Chissà quante altre donne sono morte come me.
 
Ora sono libera, solo ora che non ci sono più.
Sono l’ennesima donna uccisa dal marito. Uccisa per essere donna.


 

 

Valentina

 

 

 

 

 

 

 

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